La Maialatura

La Maialatura

LA MAIALATURA
I miei ricordi del nonno norcino

Questi giorni di pioggia e di autunno mi riportano ai tempi ormai lontani della mia infanzia.
Di quando, bambina, partecipavo alla maialatura con mio nonno e mio papà.
Devi sapere, infatti, che entrambi di professione facevano i norcini, ovvero i masén, termine dialettale parmigiano, molto noto e rispettato, perché solo i più bravi riuscivano a fare stagionare i salumi bene, in particolare il salame, che era il più difficile da mantenere integro.


Se uno spiffero d’aria colpiva la fila di salami troppo forte, potevano formarsi dei buchi interni che ne pregiudicavano la perfetta maturazione.
Ma torniamo alla nostra storia.


LA MAIALATURA

All’alba mio nonno e mio papà partivano per andare presso la casa della famiglia che li aveva chiamati per uccidere il maiale e farne carne e salumi.
Niente veniva scartato, ogni parte, anche la più miserrima, veniva utilizzata, vuoi cotta e impastata con altre parti, vuoi come ingrediente o come carne macinata.
E quando la casa era quella di qualcuno dei nostri vicini la maialatura diventava una vera festa comunitaria.
Grossi pentoloni bollivano nel cortile mentre noi bambini correvamo intorno ai tavoli dove i grandi lavoravano la carne secondo tradizioni antiche tra profumi noti.


La giornata passava tra il bollire le parti residue del maiale da cui ne uscivano i ciccioli , che venivano spesso consumati nei giorni successivi, oppure veniva fatta la cicciolata, salume tipico del territorio di Parma di cui Giovannino Guareschi, il creatore di Don Camillo, era così goloso al punto da dedicargli un racconto pubblicato nel 1954 nella sua raccolta di racconti umoristici intitolata “Corrierino delle famiglie”.


Per produrre la cicciolata, per prima cosa la testa del maiale veniva cotta per ore assieme a verdure ed erbe aromatiche.
Una volta cotta la sua carne veniva tritata e le si aggiungevano i ciccioli, sale, pepe e alloro.
Dopodiché il tutto si doveva cuocere ancora un poco per amalgamare bene il composto.
Successivamente, si avvolgeva il prodotto ricavato da quell’ultima cottura in teli di lino dello stesso tipo di quelli che si utilizzavano per la produzione del Parmigiano Reggiano e lo si schiacciava con una pressa di legno in modo da far uscire il grasso in eccesso e dargli la tipica forma squadrata che rende la cicciolata simile a un “blocco di granito”, anche se la sua consistenza è morbida.
Infine, la si lasciava riposare per un’intera giornata prima di poterla gustare.
Tra l’altro, grazie a questa lavorazione questo gustoso salume, frutto delle parti povere del maiale, poteva essere conservato al fresco per cinque mesi per, poi, essere mangiato tagliato a dadini come antipasto o a fette di medio spessore all’interno di un panino oppure adagiando fette sottili di cicciolata sulla polenta calda in modo da farle quasi sciogliere.


Dalle parti nobili, invece, ne uscivano i più famosi salumi tipici emiliani come prosciutti, i culatelli, la coppa e la pancetta.
Alla sera, dopo tanta fatica, veniva fatta una cena comunitaria dove si brindava alla buona riuscita dei salumi messi a stagionare.


E festa era anche quando finalmente si assaggiavano i salumi.
Ad ogni fetta il ricordo andava al giorno della maialatura e insieme al gusto si ricordavano anche i profumi, gli odori e i sorrisi.


CONCLUSIONE

Spero che questo viaggio nel tempo ti sia piaciuto. Ti aspetto al prossimo post per scoprire tradizioni e curiosità riguardo i prodotti tipici dell'Emilia Romagna.


Ciao,
Mamma Rosa

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