Come si faceva un tempo il prosciutto

Come si faceva un tempo il prosciutto

Le varie fasi della lavorazione del prosciutto

Oggi, mio caro lettore, ti parlerò della tecnica di produzione del prosciutto utilizzata nel parmense fino ai primi del Novecento.

Un’arte che affondava le sue radici nel passato e permetteva la realizzazione di un prodotto sano e gustoso.

Ma, soprattutto, facilmente digeribile anche da chi aveva problemi di stomaco.

Infatti, la storia ci dice che, nei primi anni dell’800, l’Imperatore Napoleone Bonaparte (il quale soffriva di ulcera, n.d.r.) in visita alla fiera di Parma assaggiò una fetta di prosciutto e non essendo stato male, come il suo solito, firmò un decreto con cui ne autorizzò l’esportazione in tutti i territori dell’impero.

LA LAVORAZIONE DI IERI

Come ho già detto nel post dedicato ai norcini i maiali venivano macellati d’inverno.

Il fatto di abbattere e macellare questi animali durante la stagione più fredda dell’anno permetteva di per sé di bloccare già di suo l’attività batterica presente nelle carni del maiale.

Ma per completare l’opera di eliminazione dei batteri, dopo che le cosce dei suini erano state rifilate in modo da dargli la caratteristica forma del prosciutto (fase 1), le suddette erano ricoperte di sale (fase 2).

In questo modo le carni si asciugavano poiché perdevano l’acqua, ovvero quell’elemento che permetteva alla carica batterica di proseguire la propria attività.

Dopo essere stato salato il prosciutto veniva messo a riposo nelle celle per ventidue giorni e, successivamente, toelettato e ripulito dal sale (fase 3).

A questo punto si passava alla sua stagionatura (fase 4) ed è qui che entrava in scena un altro elemento: l’aria.

Quest’ultima proseguiva l’attività del sale che aveva tolto la maggior parte dell’acqua per bloccare, in origine, le fermentazioni e il lavoro dei batteri.

In questo modo rimanevano attivi solo i batteri buoni, cioè quelli che danno al prosciutto il suo caratteristico gusto.

Una volta ultimata la prima fase della stagionatura la zona dove è stata tagliata coscia, che non era protetta dalla cotenna, veniva ricoperta dalla sugna, un impasto di grasso di maiale e spezie (fase 5). 

Infine, per sapere se un prosciutto era buono, avveniva la puntatura (o spillatura) (fase 6).

Tramite uno strumento fatto  di osso di cavallo simile a un punteruolo, detto fibula, tutti i prosciutti venivano trafitti in cinque punti differenti, ma prestabiliti, e “assaggiati” col naso.

La persona addetta a questa operazione, infatti, ne annusava la parte che era stata immersa nella carne e determinava il destino del prosciutto.

Questo perché se la coscia non passava l’esame olfattivo poiché c’erano ancora tracce di fermentazione, allora veniva destinata a diventare un prosciutto cotto.

Piccola curiosità: devi sapere che l’osso di cavallo è l’unico materiale al mondo che ha la particolarità di trattenere per pochi secondi l’odore del prosciutto e poi di rilasciarlo altrettanto velocemente.

Questa caratteristica permette di utilizzare la stessa fibula per più prosciutti consecutivamente.

Tutti gli altri materiali testati dopo aver punto alcuni prosciutti rimangono impregnati del loro odore.

E questo è un grosso problema poiché costringerebbe l'addetto all’assaggio a cambiare punteruolo in continuazione.

Per questo motivo, ancora oggi, la fibula è fatta con l’osso di cavallo. 

CONCLUSIONE

Spero che questo mio breve excursus dedicato alla tecnica di produzione del prosciutto utilizzata in passato, nel parmense, ti sia piaciuto.

Ciò detto, non mi resta che salutarti dandoti appuntamento al prossimo post.

Ciao,

Mamma Rosa

Condividi